sabato 28 maggio 2011

Se il Male si impossessa della campagna elettorale.

La neve qui a Milano si scioglie in questa campagna elettorale ma l’apparizione delle feci, sonnecchianti sotto il manto bianco, è avvenuta ben prima. Strano evento in controtendenza rispetto all’arcinota aria d’attesa che caratterizza l’apparizione del defecato.

Sono avvenuti diversi episodi, in preparazione sia del primo turno che dell’imminente ballottaggio, che mi hanno fatto pensare alla storia del tizio che in macchina imbocca l’autostrada in senso inverso, e sente alla radio che un pazzo guida a folle velocità contromano, per l’appunto, in autostrada. Un pazzo soltanto? Qui sono tutti usciti fuori di cervello!

Ho avuto l’impressione che l’ufficio comunicazione del centrodestra abbia chiesto consulenze alla sottile mente di Renzo Bossi con la complicità al botox della Santanchè, tanto che la condotta di candidati e sostenitori del Pdl e della Lega ricordava tanto quella del tipo ubriaco che, in mezzo ad un concerto affollato, tenta di farsi largo tra la gente ma che ai primi tre passi in barcollio molla il suo vomito sotto l’ascella sudata di un braccio ritto al cielo, festante.

I manifesti apparsi in città, inneggianti a Letizia ed infamanti nei confronti della “Sinistra” sono davvero incredibili. Può averli creati solo uno che ritiene gli elettori capaci di credere agli asini volanti e al diritto di volare basso sulle corsie preferenziali dei grandi viali cittadini. Erano veramente convinti di vincere, anche Grillo lo aveva detto: Pisapia è uguale alla Moratti, sono tutti morti e prima di spirare si sono spartiti le città: Torino e Bologna a te, Milano e Napoli a me, diceva degli altri. Grillo in cattiva fede, più catastrofista di un calendario Maya/Michelin. Lui si dice diverso, ma a me ricorda tanto Mister B. del ’94, quanto meno nella retorica.

Lei, l’amata Letizia si gongolava già con l’Ecopass in poppa, spinta dalle infauste previsioni grillesche, rilassata nella bat-caverna del figlio, incurante sia delle mancanze di 5 anni di amministrazione che degli abusi dei suoi. Persino il suo parrucchiere, finendo tutta la lacca in magazzino ha imprecato: “Se la lacca è finita ed il buco dell’ozono comincia a restringersi al Polo Sud, è tutta colpa di Pisapia”.

Appunto. Qui il centrodestra di lotta e di governo ha offerto il fianco ad una satira politica di origine popolare che gli ha inferto fustigate degne di un centurione romano prima della crocifissione del malcapitato. Se Grillo si fa politico, qualcuno dovrà fare il comico: il popolo della rete, a Milano, si trasforma in saltimbanco 2.0 e dileggia i potenti.

Non solo. Anche il sud Italia ha dato sostegno linguistico a queste vergate senza vergogna: #Sucate non è di certo un lemma nordico, quanto più un concetto universale che dall’Italia subpadana si spande nell’aria come una botta di PM10. Non si vedevano toni così sprezzanti a sinistra dai tempi de Il Male: “La città di Sucate” è una provocazione, un dileggio della stupidaggine pari a “Tognazzi capo delle BR” di Zac e soci o alla notizia “Moro è vivo!” sparata in prima pagina dalla banda Frigidaire su (falso) Il Lunedì della Repubblica.

‘Caught with the pants down’ direbbero gli inglesi, in segno d’irrisione di qualcuno colto in flagrante. In questo caso, anche le mutande erano sgommate di vergogna.

Ora bisogna tenere alta la guardia con la stessa veemenza dei pornostar, per far sì che questo esplosione di ironia e satira contro il potere non si sciolga come neve al sole, ma sia solida e viva come il prato che fagociterà lo sterco su di esso.

martedì 24 maggio 2011

Fritto misto catodico in salsa precaria

Sono rimasto talmente sconcertato dal nuovo programma di Vittorio Sgarbi in tv che potrei anche iniziare a dare per vera la notizia della morte di Osama Bin Laden. Sgomento anche Giuliano Ferrara: non avrebbe mai pensato ci fosse qualcuno capace di scendere sotto i minimi storici raggiunti dallo share durante Qui Radio Londra.

Distrutto, lo share ha infine deciso di visitare Zurigo dopo la legge sul suicidio assistito approvata dal cantone svizzero.

Negli ultimi mesi, la televisione digitale terrestre ci ha dato diverse prelibatezze con cui solleticare le nostre papille gustative e frantumarne altre, di papille.

Ho apprezzato talmente tanto Antonella Clerici sul palco dell’Ariston a Sanremo, mentre soffriggeva quella povera anima di sua figlia e la adagiava su un palco di rucola con spruzzata di riflettori finale, che alla fine ho dovuto bere un mix digestivo di Viakal e Idraulico Liquido per non vomitare. Inutile.

Antonellina Clerici, sorridente nonna Pina a pranzo, a cena famelica nonna di Cappuccetto Rosso con “che denti grandi che hai”, Antonellina. Più insidiosa di un don Seppia qualsiasi.

Non mi meraviglierei se in futuro la piccola Clerici dovesse sviluppare dei disturbi specifici dell’apprendimento, dopo i suoi occhi sbarrati in prima serata, spaventata e traumatizzata da un mondo in cui la madre non ha avuto paura di infornarla, salvo poi dispiacersi della cosa. Una volta bruciata, cara Antonellina, tutta la crema del mondo non potrà sanare la ferita di aver sfruttato l’immagine di una bambina, tua figlia, per la tua bella faccia da bambola gonfiata a bomboloni. Guarda com’è cresciuta smorfiosa la figlia di Fiona May a furia di vivere in una casa tutta bianca e mangiare merendine con una goccia di miele.

Lo spettro di un altro chef si aggira per il digitale terrestre. Questo highlander della padella è biondo come la spuma ed irritante come lo spray al peperoncino. Il suo nome è Gordon Ramsay ed è il dittatore più glamour dei fornelli. I suoi format sono dappertutto, non si contano più, con una frequenza più alta di quella dei kebabbari di Milano e con un’incidenza sulle mode gastronomiche pari a quella del sushi-cinese-pizza (ne esistono un sacco sotto la Madunneddra).

Non è la spasmodica ricerca della perfezione del sapore che gli si può contestare, d’altronde ogni lavoratore dà quotidianamente il proprio meglio, nonostante giornate dure in cui essere precari davanti ai fornelli può essere una tortura peggiore che cucinare aglio olio e peperoncino per i critici di Slow Food.

Non è neanche il suo continuo imprecare con F-words contro il suo staff di cuochi mediocri che perdono il controllo delle proprie creazioni, come la strega di Hansel e Gretel, cadendo rovinosi dentro il calderone dello spettacolo spinti dal biondo Ramsay: imprecare, secondo ultime ricerche, produce endorfina utile a far passare il dolore.

Ciò che mi fa saltare come una goccia d’olio che zampilla dalla friggitrice e prende fuoco è il modello culturale che il format Hell’s Kitchen propone: due squadre di cuochi che, si battagliano fino all’ultima guarnizione per essere i migliori spadellatori dell’etere. Fin qui tutto ok. Il raccapriccio sorge, come davanti alla scoperta di un capello nel piatto, quando ciascun gruppo deve votare la coppia più scarsa al proprio interno, e tra questi quattro sfigati uno viene scelto da Gordon l’ingordo per essere eliminato dal menù.

Pietrificato da tanta disumana realtà, con il diavolo in corpo e senza coperchi, ho iniziato a sostenere Pisapia a sindaco di Milano.

Un programma televisivo è specchio dei tempi da una parte e sedimento di un’idea malsana del lavoro dall’altra. E’ odioso dover fare lo spione chiamato dal capo infamando un proprio collega: sa di tappo, puzza come il formaggio di fossa. Cerca, a mio avviso, di rendere istituzionale un modello, quello del capo-chef autoritario incurante degli sforzi e dei sentimenti degli ultimi, i quali rischiano d’essere espulsi sia per mancanze proprie che per la bassezza delle regole del gioco.

Il mio pensiero va a tutti quei lavoratori della ristorazione che si apprestano a fare stragi di gamberoni e pescato e pulizia etnica di maiali e cavalli nel tacco d’Italia. Difficile e stressante è lavorare per tre mesi a ritmo forsennato davanti a fuochi e padelle e piatti e guarnizioni, tanto che alla fine della stagione sembrano tutti degli Hulk sotto dieta ferrea, inverditi e ammorbati dall’ambiente bollente. Tenere duro è difficile quando sei lavapiatti e immigrato, aiuto-chef o cameriere stagionale, mentre i tuoi clienti abbronzati ti rimandano indietro un piatto per non meglio precisati motivi, se non la voglia di fare i fichi raffinati al tavolo.

Resistete e continuate a darci del cibo: per voi, l’Inferno è piastrellato di bianco da sgrassare a fine turno.



lunedì 9 maggio 2011

Salento: sole, mare, isolamento

Sono un po’ di mesi che si parla di Regione Salento indipendente da Bari ladrona causa di tutti i mali economici dell’antico tacco italico sorretto dal tendine di Brindisi e il tallone di Taranto restare incollati all’Italia e all’Europa.
In un periodo in cui l’indice di gradimento politico si misura sui pollici dei tacchi a spillo di “ministre-calendario” è giusto che tutta la categoria veda riconosciuto il proprio status e abbia i propri privilegi garantiti.
Qual è il vero scopo di questa regione Salento? L’unica risposta plausibile mi sembra sia di creare una nuova burocrazia locale in mano a nuovi (o vecchi) triumvirati, finalmente liberi dal tiranno barese e i compagni dauni, loro si pugliesi a tutti gli effetti.
Con tutta la sincerità dell’inquisizione spagnola, se vogliamo scacciare via la sottomissione ed essere finalmente una zona autonoma permanente dobbiamo in primo luogo liberarci del tiranno senza diventare tiranno noi stessi.
Semplice a dirsi, molto di più a farsi. Pensate se le banche di Lecce, Brindisi e Taranto si unissero in un solo cartello e formassero, aiutati dalla politica, non una regione ma un paradiso fiscale: lussuosi hotel con piscina, casinò, sale da ballo, spiagge esclusive con concessione millenaria e via discorrendo.
Il Salento diventerebbe un paradiso, una lavatrice di denaro lordo ma con un sorriso pronto a chiudersi sulla cannuccia di un mojito in riva al mare senza più precarietà né tanto meno disoccupazione a corrucciarci l’abbronzatura.