martedì 24 maggio 2011

Fritto misto catodico in salsa precaria

Sono rimasto talmente sconcertato dal nuovo programma di Vittorio Sgarbi in tv che potrei anche iniziare a dare per vera la notizia della morte di Osama Bin Laden. Sgomento anche Giuliano Ferrara: non avrebbe mai pensato ci fosse qualcuno capace di scendere sotto i minimi storici raggiunti dallo share durante Qui Radio Londra.

Distrutto, lo share ha infine deciso di visitare Zurigo dopo la legge sul suicidio assistito approvata dal cantone svizzero.

Negli ultimi mesi, la televisione digitale terrestre ci ha dato diverse prelibatezze con cui solleticare le nostre papille gustative e frantumarne altre, di papille.

Ho apprezzato talmente tanto Antonella Clerici sul palco dell’Ariston a Sanremo, mentre soffriggeva quella povera anima di sua figlia e la adagiava su un palco di rucola con spruzzata di riflettori finale, che alla fine ho dovuto bere un mix digestivo di Viakal e Idraulico Liquido per non vomitare. Inutile.

Antonellina Clerici, sorridente nonna Pina a pranzo, a cena famelica nonna di Cappuccetto Rosso con “che denti grandi che hai”, Antonellina. Più insidiosa di un don Seppia qualsiasi.

Non mi meraviglierei se in futuro la piccola Clerici dovesse sviluppare dei disturbi specifici dell’apprendimento, dopo i suoi occhi sbarrati in prima serata, spaventata e traumatizzata da un mondo in cui la madre non ha avuto paura di infornarla, salvo poi dispiacersi della cosa. Una volta bruciata, cara Antonellina, tutta la crema del mondo non potrà sanare la ferita di aver sfruttato l’immagine di una bambina, tua figlia, per la tua bella faccia da bambola gonfiata a bomboloni. Guarda com’è cresciuta smorfiosa la figlia di Fiona May a furia di vivere in una casa tutta bianca e mangiare merendine con una goccia di miele.

Lo spettro di un altro chef si aggira per il digitale terrestre. Questo highlander della padella è biondo come la spuma ed irritante come lo spray al peperoncino. Il suo nome è Gordon Ramsay ed è il dittatore più glamour dei fornelli. I suoi format sono dappertutto, non si contano più, con una frequenza più alta di quella dei kebabbari di Milano e con un’incidenza sulle mode gastronomiche pari a quella del sushi-cinese-pizza (ne esistono un sacco sotto la Madunneddra).

Non è la spasmodica ricerca della perfezione del sapore che gli si può contestare, d’altronde ogni lavoratore dà quotidianamente il proprio meglio, nonostante giornate dure in cui essere precari davanti ai fornelli può essere una tortura peggiore che cucinare aglio olio e peperoncino per i critici di Slow Food.

Non è neanche il suo continuo imprecare con F-words contro il suo staff di cuochi mediocri che perdono il controllo delle proprie creazioni, come la strega di Hansel e Gretel, cadendo rovinosi dentro il calderone dello spettacolo spinti dal biondo Ramsay: imprecare, secondo ultime ricerche, produce endorfina utile a far passare il dolore.

Ciò che mi fa saltare come una goccia d’olio che zampilla dalla friggitrice e prende fuoco è il modello culturale che il format Hell’s Kitchen propone: due squadre di cuochi che, si battagliano fino all’ultima guarnizione per essere i migliori spadellatori dell’etere. Fin qui tutto ok. Il raccapriccio sorge, come davanti alla scoperta di un capello nel piatto, quando ciascun gruppo deve votare la coppia più scarsa al proprio interno, e tra questi quattro sfigati uno viene scelto da Gordon l’ingordo per essere eliminato dal menù.

Pietrificato da tanta disumana realtà, con il diavolo in corpo e senza coperchi, ho iniziato a sostenere Pisapia a sindaco di Milano.

Un programma televisivo è specchio dei tempi da una parte e sedimento di un’idea malsana del lavoro dall’altra. E’ odioso dover fare lo spione chiamato dal capo infamando un proprio collega: sa di tappo, puzza come il formaggio di fossa. Cerca, a mio avviso, di rendere istituzionale un modello, quello del capo-chef autoritario incurante degli sforzi e dei sentimenti degli ultimi, i quali rischiano d’essere espulsi sia per mancanze proprie che per la bassezza delle regole del gioco.

Il mio pensiero va a tutti quei lavoratori della ristorazione che si apprestano a fare stragi di gamberoni e pescato e pulizia etnica di maiali e cavalli nel tacco d’Italia. Difficile e stressante è lavorare per tre mesi a ritmo forsennato davanti a fuochi e padelle e piatti e guarnizioni, tanto che alla fine della stagione sembrano tutti degli Hulk sotto dieta ferrea, inverditi e ammorbati dall’ambiente bollente. Tenere duro è difficile quando sei lavapiatti e immigrato, aiuto-chef o cameriere stagionale, mentre i tuoi clienti abbronzati ti rimandano indietro un piatto per non meglio precisati motivi, se non la voglia di fare i fichi raffinati al tavolo.

Resistete e continuate a darci del cibo: per voi, l’Inferno è piastrellato di bianco da sgrassare a fine turno.